Baker’s Dozen – Dibia$e (Review) L.A. e l'eredità di J Dilla
La serie di dischi strumentali Baker’s Dozen lanciata nel marzo 2016 è il risultato di un progetto che, viste le premesse, era prevedibile che generasse risultati di grosso calibro.
Per la Fat Beat Records il piano era semplice: dare carta bianca ai migliori produttori in circolazione di hip hop, ambient e musica elettronica per produrre una raccolta di vinili in edizione limitata che esprimessero in tredici tracce il meglio di ogni artista. Come ulteriore garanzia di successo si è voluto affidare il primo volume della serie a Mr. Dibia$e, produttore originario di Watts, California, da anni ormai punto di riferimento per la scena di Los Angeles.
Dalla vittoria al Red Bull Big Tune Battle nel 2010 al successo dell’esordio discografico con Machine hate me (2011), poi di Collecti’n dust, Sound Palace e Schematiks, Dibia$e ha saputo riconfermarsi anno dopo anno come trai migliori alchimisti di una scena vulcanica come quella californiana: seguendo le tracce di J Dilla ha portato i groove non quantizzati e la sensibilità soul sui territori di una personalissima ricerca sonora tra la musica degli anni ’80, le trasmissioni radiofoniche jazz, la fascinazione per la low fidelity e i videogiochi, tra l’altro anticipando di anni l’attuale mainstream dell’estetica 8bit.
Le sue tredici tracce per il progetto Baker’s Dozen esplorano questi territori portando l’album in direzioni sempre diverse, con incursioni nel jazz, nella musica brasiliana di Marcos Valle (She’s kickin), nel rhythm ‘n blues (capolavoro il campionamento di Faith Evans in Soon), passando da Al Jarreau al soul di Anita Baker (Luv suite). C’è spazio anche per un ritorno al lato più raw delle prime produzioni, Grungedout e Play time is over ci riportano con forza al sound lo-fi e ai campionamenti 8bit di Machine hate me.
Lo stesso processo di produzione, come spiega Dibia$e nel’introduzione al disco, riassume un percorso che parte dai primi anni novanta, quando stendeva beats con un walkman e un campionatore Gemini da 8 secondi, e arriva a oggi con l’uso combinato di software e campionatori hardware; se è ormai usuale vederlo suonare nei live shows con ableton e controller midi, d’altra parte è nota la fedeltà di D.B. ai Roland sp404 e 303 che anche in Baker’s Dozen giocano un ruolo portante nella definizione del suono: l’uso massiccio del loro arsenale di fx, i classici low-pass filter, isolator, wha e delay nel filtraggio dei campioni (Just The Way, Luv Suite, She’s kickin, solo alcuni esempi) è ormai fattore di riconoscimento dello stile di Dibia$e, al pari della comprovata maestria nel taglio dei campioni (vedi Soon, Late Stroll, Sweethart).
L’eclettismo nella scelta dei samples non compromette comunque l’organicità di un album che risulta compatto, sempre ancorato al più classico boom bap ma con la freschezza tipica della beat scene di L.A.
Il risultato conferma ancora una volta il dato di fatto che qualsiasi cosa passi sotto le mani di mr. Dibia$e si trasformi inesorabilmente in un neck breaker, ed è decisamente una grazia per i colleghi che D.B. abbia lasciato le battle per dedicarsi a tempo pieno ai live. Almeno per ora.
Nota: l’espressione inglese ‘a baker’s dozen’ sta a indicare “una dozzina più uno” tredici appunto come le tracce di ciascun volume di questi vinili in edizione limitata. L’espressione sembra derivare da un’antica pratica dei fornai inglesi, che potete approfondire QUI