Oltre il sampling: Pete Rock e i polizieschi italiani
“Se fossi un producer italiano, campionerei una di quelle meravigliose colonne sonore dei vostri film polizieschi, solo un producer italiano saprebbe come usare quei sample”.
Non sono le parole testuali, perché risalgono ad un’intervista di circa 20 anni fa su Aelle, ma il senso era quello: producer italiani, recuperate quella miniera d’oro musicale che fa parte della vostra tradizione!
Per la cronaca, chi dava questo consiglio era un certo Pete Rock, uno che quando parla di sampling e produzione, tutti noi dovremmo ascoltare in rispettoso (religioso) silenzio. Se la memoria non mi fa scherzi, quel numero di Aelle risale al 1998, poco dopo l’uscita di “Soul Survivor”, quello che a mio avviso è la vetta massima raggiunta dal producer newyorchese nella sua fondamentale discografia.
Tutto quello che uno puó immaginare di New York è dentro quel disco, uno lo sa anche se (come me) a New York non ci è mai stato. Quei campi da basketball recintati, quelle sirene lontane della polizia, quell’inverno gelido, quei negozi di dischi, quel film americano che è New York nel nostro immaginario di non americani è profondamente impresso in quei rullanti ruvidi, nel crackle di quei sample.
Nel 1998 avevo 15 anni , vivevo in provincia di Napoli e cercavo di capire cosa fosse davvero un campionatore, che all’epoca nemmeno avevo. Peró questa cosa dei polizieschi mi rimase impressa. Li
conoscevo quei polizieschi, polizieschi che tra l’altro mi piacevano, che erano un po’ un classico della seconda serata su Telecapri o (raramente) della domenica pomeriggio su Rete4. Insomma era una cosa figa assai, il mio producer preferito che parlava di un qualcosa che non avevo bisogno di scoprire, che tutto sommato giá conoscevo, che la trasmetteva pure Napoli Canale 21.
Quella illuminazione sancí l’inizio di un decennio all’insegna del Jazz Funk italiano, speso a cercare ossessivamente, colonne sonore, sonorizzazioni e library music con quel denominatore comune di groove . Iniziai dalle colonne sonore, quella di ‘Milano odia la polizia non puó sparare” di Morricone, quella di “Napoli Violenta” di Franco Micalizzi, quella di “Milano Calibro 9” di Luis Bacalov (ma suonata dai napoletani Osanna).
Quella di “Mark il poliziotto” di Stelvio Cipriani. E poi anche quella di “Chi sei?”, che non è un poliziesco ma un giallo horror dove ancora Micalizzi sforna il meglio del suo repertorio Jazz Funk. La soundtrack dello sceneggiato “Ho visto un’ombra” (Berto Pisano), quella de “L’ultima neve di primavera”, ancora di Micalizzi. La serie del commissario Nico Giraldi, aka Il Monnezza, con colonne sonore di Bruno Nicolai fino ai fratelli De Angelis.
Da lí il breve passo nella scoperta della library music: il Jazz elettronico di Piero Umiliani in “To-Day’s Sound”, nella colonna sonora de “La ragazza fuori strada” e in quella (superlativa) de “Il corpo”.
Le atmosfere latine di Bruno Battisti D’Amario, la bossanova omaggiata davvero da tutti, da Alessandro Alessandroni (il fischio dei western di Sergio Leone), a Piero Piccioni, ad Augusto Martelli.
Per non parlare delle raccolte Phase 6 Super Stereo, delle libraries CAM, degli archivi RAI “Nuovo repertorio editoriale” con i lavori avanguardistici di Amedeo Tommasi (anche pianista di Chet Baker) e Stefano Torossi. O ancora il fuzz-rock psychedelico dei Gres, il prog sinistro dei Goblin apprezzato in tutto il mondo.
Insomma per farvela breve un universo sterminato di cui sono ancora profondamente innamorato e che ha stampato un marchio arroventato sul mio modo di fare musica da producer.
Giá, producer. Molti dei nomi che ho citato, a loro modo, nella loro epoca, erano dei producer. Umiliani aveva il suo personale home studio, in cui vantava diversi modelli dei gloriosi Synthi EMS (il synth usato anche dai Pink Floyd in ‘On the run’). Morricone suonava i nastri magnetici a velocitá dimezzata per ottenere un timbro delle sezioni d’archi che non riusciva ad ottenere registrando esattamente quelle note. Egisto Macchi nel suo ‘Cittá notte’ (recentemente ristampato da Four Flies Records) sperimentava con registrazioni di oggetti comuni, quelli che oggi chiameremmo found sounds.
Oppure l’uso del synth nel cinema horror anni 80, che mi sembra di ritrovare in molta vaporwave contemporanea. Se i beat di Pete Rock hanno l’odore acre dell’asfalto di New York, le soundtrack e la library music italiane profumano di un Harlem trapiantato a Roma, di una Rio de Janeiro pugliese, di un Apollo Theatre nei quartieri spagnoli di Napoli. Musica italiana, musica d’avanguardia che non trovando spesso spazio nella canzone d’autore, lo trovó paradossalmente nell’ambito delle colonne sonore o nei repertori musicali per i media (questi ultimi a lungo ritenuti musica di serie B).
Oggi, 30 o anche 40 anni dopo, se non fosse stato per i nuovi producer e DJ, molti di questi autori sarebbero stati dimenticati. E’ grazie al migliore Hip Hop se il maestro Giampiero Reverberi continua a vivere nei beat di Eminem (‘Bad Guy’), se “Suonando la batteria moderna” di Tullio De Piscopo ha contribuito all’ossatura ritmica di diverse tracce di DJ Shadow, o se piú recentemente Knxwledge ha campionato “Nostalgia” di Piero Umiliani.
E come non citare “Gli Originali”, il progetto che vedeva Franco Micalizzi e la sua orchestra partecipare con nomi di rilievo dell’HipHop italiano (Deda aka Katzuma, Next One, TayOne, Colle Der Fomento, Turi e altri) per ricontestualizzare molte delle gloriose colonne sonore del maestro.
C’è un intervista a The Gaslamp Killer in cui prende dalla sua collezione un disco degli Osanna e inizia a sclerare, ma sclerare pesantemente. Dice che i migliori rullanti stanno lá, e c’è da credergli. Io invece questi dischi non sono mai riuscito a campionarli. Li ascolto, li studio, ma l’atto di campionarli, di appropriarmene anche solo in parte mi provoca disagio e senso di colpa. Perché sento che questi dischi, oltre al groove, oltre al suono, oltre ai rullanti, hanno davvero qualcos’altro. Ed è un qualcosa che parla a noi, proprio a noi persone che vengono da quel Paese. Dico ‘quel’ e non ‘questo’ perché vivo in Inghilterra e vi assicuro che non c’è nulla di piú potentemente evocativo di quei dischi, che forse in silenzio hanno distillato il suono di una cultura, di un modo di vivere e di un immaginario che nel mondo è stato reso celebre soltanto dal cinema. Nulla come quei dischi esprime un tratto comune di molti autori italiani, e cioè la capacitá di assorbire linguaggi culturali che non ci appartengono e riuscire a farli diventare la cosa piú italiana che esiste.
Se ascolti Carosone che cosa pensi, che è swing o che è la quintessenza della canzone napoletana? Per dire. I producer italiani possono imparare molto da quei dischi, possono farci molto di piú che usarli come fonte per cacciarci sample che spaccano. In quei dischi ci si specchia, si impara, si intravede una direzione giusta, si capisce cosa vuole dire mantenere un equilibrio tra le culture a cui si attinge e quella in cui si capita di nascere. Saró esagerato, ma quei dischi insegnano (a chiunque) come si sta al mondo oggi, cos’è la contaminazione , cos’è l’esplorazione. Chissá se i veri autori di quella musica si rendono davvero conto delle proporzioni dell’ereditá lasciata a noi posteri. E chissá se noi, che siamo figli di una e altre mille culture, ci rendiamo conto che la lezione è vecchia di 40 anni e a darcela sono proprio quei signori distinti in camicia, maglioncino e synth.
Pete Rock lo sapeva, ma Pete Rock è un’altra storia. Se no come riusciva a creare in tre parole quel ponte istantaneo tra la cultura in cui mi identificavo da lontano e quella invece che faceva passivamente parte del mio quotidiano da ragazzino di provincia?